L’attacco odioso alla scuola (i docenti sono in larga misura donne) e quello ritornante, ossessivo, eterno quanto l’antropologico odio maschile, al diritto di aborto, formalizzato dal papa in modo tale da dipingere come delle minorate mentali vittime di plagio ideologico quelle stesse donne consapevoli, mature, fortissime, colte (indipendentemente dai titoli conseguiti), suore e attrici, studentesse e scienziate, casalinghe e dottoresse, che la settimana scorsa hanno riempito le piazze d’Italia per costringere “papi”, papa e immarcescibili padroni a riconoscere che il paese reale, a differenza della sua classe dirigente, è uscito da tempo dal medioevo e pretende di essere governato conformemente al suo grado di sviluppo culturale, sono stati concordi e concomitanti. Non è un caso. Non deve soprendere. Ma non deve neppure sfuggire.
Vaticano e lenoni governativi costituiscono un solo blocco, una sola casta che le donne, precipuamente, stanno destabilizzando e de facto destrutturando, sostituendo gradatamente ai suoi violenti e gerarchizzanti princìpi un ordine nuovo, una nuova etica, un nuovo modus agendi, un rinnovato lessico socio-giuridico e relazionale.
Hanno paura. Hanno paura come non mai, perché hanno capito che da questo travaglio, doloroso e tormentato come il parto di un’immigrata, in quest’Italia spersa e dimentica di sé, potrebbe nascere non la solita cricca di falsi interpreti e rappresentanti di un popolo tradito da tutti e da sempre, non un’altra gattopardesca consorteria di “soci in affari” bravi a mascherare i loro condivisi interessi dietro la retorica e le liturgie del governo “democratico”, ma un sovvertimento totale dei presupposti, delle precondizioni e delle finalità del governare e dell’associarsi, del rapportarsi e del comunicare.
Tale temutissimo rovesciamento capitale è incarnato in primis dalle donne, da quelle donne pronte a mettere la loro immensa capacità di lavoro e la loro abnegazione al servizio del paese, donne stanche di essere emarginate nonostante titoli e comprovate capacità, stanche di essere discriminate nonostante la Costituzione e le tutele, solo sbandierate, stanche di fare da dotte segretarie di potenti e mediocrissimi viziosi che girano il mondo a spese di una collettività allo stremo, a sua volta resa sensibile, stavolta, dalla disillusione e dalla nausea bipartisan, ad una proposta di cambiamento radicale, alla sperimentazione di una formula ariosa, che spazzi via il “marcio” che tutto ha sommerso: le sagrestie deturpate dagli stupratori in tonaca, che tanti credenti hanno traumatizzato, le televisioni, che, come serve impaurite, censurano in diretta chi dice la verità per evitare le frustate del padrone, le stanze dei palazzi del popolo “sovrano”, ridotte a fetidi e sordidi bordelli, i luoghi del potere decentrato, della politica locale, da cui, di fronte a cumuli di munnezza materiale e morale, promanano menzogne volte a mantenere la gente in un perenne carnevale, un paese dei balocchi finto e squallido alla fine del quale arriva la trasformazione dei baccheggianti in altrettanti asini.
Le donne sono più inclini ad essere assolutamente alternative a tutto ciò. Le donne sono naturaliter eversive perché le donne raccontano le storie, senza stancarsi. A tutti i nuovi nati le donne raccontano che fine ha fatto Lucignolo, quanto sia pericoloso l’untuoso omino di burro, quanto sia temerario ma bello rifiutare la coccarda da “primo della scuola” conferita da uno sciocco e pedante maestro del nulla e partire per il Paese dei balocchi, e quanto, dopo aver sperimentato il vuoto dell’egoismo e del nonsenso, l’etica del lavoro e del rispetto possa riscattare chi è tornato da un inferno mascherato da paradiso.
Prima della manifestazione del 13 “Se non ora, quando?”, è stata proposta la sostituzione delle identità dei nostri profili facebook con l’identità di donne “eminenti” in ogni campo, esemplari in qualche misura, in qualche tempo, in qualche modo. C’è chi si è rifiutato, interpretando tale selezione come una concessione ulteriore al maschilismo, disposto paternalisticamente a “riconoscere” qualche rara mosca bianca nella generalità delle creature per il resto ritenute comunque “inferiori”; c’è chi ha indicato se stessa o il genere tutto in lotta contro il continuo assalto ai diritti umani elementari. Io ho scelto Sharazade, che si salva la vita e educa all’amore, al dialogo, all’apertura all’altro-da-sé attraverso le storie, l’illustrazione del “campionario dei destini umani” (Calvino).
Ora, però, mi viene in mente un’altra grandissima donna, una donna di fronte a cui Ratzinger tremerebbe. Era una contadina analfabeta; si chiamava Agatuzza Messìa. Agatuzza era una narratrice straordinaria di storie. Calvino, che di quelle storie è andato in cerca (tra le fiabe italiane da lui raccolte in tre volumi, le più numerose e belle sono quelle di Sicilia; subito dopo c’è il corpus toscano-pistoiese, che non eguaglia in bellezza quello siciliano), imbattendosi spesso in Agatuzza, dice che questa donna raccoglieva le generazioni attorno ai focolari e raccontava col corpo e la lingua storie in cui le suggestioni arabe e la popolana vena siciliana si fondevano felicemente. Sua specialità era l’esatta riproduzione dei linguaggi settoriali, le lingue dei mestieri che vedeva fare o faceva lei stessa… Ecco: da Sharazade ad Agatuzza, la forza delle donne passa, come un testimone, per il racconto, per quelle storie che sono relative, molteplici, varie, antropologiche, archetipiche, “formative”, psicagogiche.
Non è un caso che le storie, terreno delle donne, siano state a lungo relegate nella sfera del “prelogico”, del primitivo, dell’irrazionale, da una cultura monopolizzata dal falso scientismo maschile! Nella scuola pubblica, in casa, per le strade, le donne e gli uomini buoni raccontano storie, intrecciano storie, immettono in un rutilante caleidoscopio di riflessioni ed emozioni degne dell’umano sentire quelle fantasie giovani e fresche che altri vorrebbero accendere solo col cibo, l’alcool e qualche coito imbestiante e volgare.
La rivoluzione non si fa solo nelle piazze. Esistono rivoluzioni silenziose, “psichiche”, che non sono meno ribaltanti di quelle di cui si vede, purtroppo, il sangue. Forse anche in Italia la rivoluzione è compiuta. Quel che stiamo vivendo in questi surreali e drammatici giorni lascerà il suo segno, la sua cicatrice profonda di sfiducia totale e di totale rigetto non di un leader o di un altro, ma di un intero sistema di amministrazione e organizzazione del potere, del paese, della società, della comunicazione. Forse, dopo Berlusconi, dopo Bersani, dopo Scilipoti, dopo gli inverecondi silenzi di Bagnasco e Ruini di fronte al malaffare, alla politica del killeraggio, all’indecenza del bunga-bunga, anche da noi “nulla sarà più come prima”, per usare un’usurata espressione, ancora tuttavia efficace.
“Loro” lo presentono, lo fiutano, ne sono terrorizzati. E allora reagiscono in modo scomposto, esagitato ed esagerato: umiliano, calpestano, negano l’evidenza, sciolgono disperatamente i loro segugi prezzolati, i torturatori, i censori immorali, i finti esegeti di parole di cui la gente si è ormai riappropriata, risemantizzandole per sempre, senza più sentirsi in colpa. Anzi, sentendo il dovere morale di farlo.
Forse sono troppo ottimista; forse sono velleitaria; forse mi va di buttare giù una interpretazione “in positivo” delle gravi offese che la parte onesta dell’Italia subisce perché spero che qualcuno possa veramente crederci e, magari, tradurla in proposta politica o diffonderla più convincentemente… Non lo so.
Spero sia vero quel che mi pare, cioè che molti Italiani hanno bisogno di esperti narratori di storie per cambiare storia, che hanno nostalgia delle storie che insegnano e preparano a vivere, delle storie che aiutano a scegliere senza dover vivere mille vite, delle storie che dicono più dei numeri, più dei bilanci, inglobando anch’essi nelle loro trame. Spero, insomma, che siano in tanti quelli che hanno nostalgia o curiosità di ciò che accadeva e potrebbe di nuovo accadere davanti al focolare di Agatuzza.
Marcella Raiola
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