Primo giorno di scuola per i precari di Napoli: un presidio di 24 ore in Piazza del Gesù per controinformare e coinvolgere, per invitare gli “utenti” a tornare “cittadini”
di Marcella Raiola
“L’hai già approntata? Stai prendendo gli appunti?” Mi sfotte bonariamente, l’instancabile Maria Rosaria, che Ungaretti avrebbe posto sulla copertina della sua raccolta Allegria di naufragi, perfetta immagine di quell’ilarità caparbia, irridente e viscerale che sa trovare solo chi non vuole cedere mai al “destino” e alla disperazione. Allude, ovviamente, alla nuova nota che si aspetta io scriva su quanto vissuto insieme oggi, 15 settembre, primo giorno di scuola. Sorrido; non riesco a rispondere a tono, ma ora mi viene in mente che potrei proporre al gruppo di soprannominarmi “seppia”, visto che covo nero d’inchiostro in corpo e lo “libero” quando voglio segnalare uno stato particolare o difendermi dal pescatore predace.
Per tutta la giornata, i precari della scuola di Napoli e gli studenti universitari organizzati hanno offerto la possibilità di sputare il proprio nero anche al resto della cittadinanza, beffata o illusa dalla retorica della scuola “per miracolo” e dei prèsidi-grandi-mamme o prèsidi-grandi-papà che per la scuola muoiono e si sacrificano (cosa innaturale e inutile quanto naturale e proficua sarebbe, invece, la protesta radicale contro chi li costringe al “martirio” professionale, ostentato con un compiacimento stolido e stucchevole).
“Nìchero ‘nguzzùto”: lo chiamava così, mia nonna, in torrese stretto, il nero che più nero non c’è, il nero cupo, il nero profondo. E ne sono venuti parecchi, di ‘nguzzùti, a Piazza del Gesù Nuovo, al tavolo predisposto per loro, coi bristol bianchi e i pennarelli colorati, a lasciare un pensiero, un auspicio, una definizione, una testimonianza che avesse ad oggetto la scuola pubblica o il loro rapporto con essa. Palloncini e caramelle morbide a gusto coca-cola sono stati offerti in aggiunta, per vincere le diffidenze e resistenze dei genitori con figli al séguito.
E’ una città strana, questa… Sul Rettifilo c’è sempre capannello attorno al truffatore che fa il gioco delle “tre carte”, che si mette all’imbocco del “largo” che porta all’ospedale Ascalesi; quando si chiede alle persone di esprimersi, invece, scatta la paura… Si sentono più minacciate di quando ci vanno di mezzo i soldi e la faccia! Perdere denaro in modo ignominioso non è nulla, in fondo; lasciare una parola scritta è sempre compromettente! Mi torna in mente Renzo Tramaglino, quando paragona la penna alla spada sempre pronta a infilzare i poveri campagnoli ignoranti… Chissà quanto tempo ci vuole perché un popolo, sia pure storicamente vessato da tante dominazioni, impari a parlare senza timore di ritorsioni e purghe… Vero è che il “parastato camorra” continua la sua dominazione indisturbato, ed è come una cripto-tirannide permanentizzata…
Sole fortissimo, in piazza; presidio colorato e allegro; le tènere premure di Rosa e la sua presenza discreta, costante, sensitiva, mi rasserenano e stemperano ogni amarezza, accrescendo l’ottimismo.
Al banco si fermano degli squinternati ex prof. che ci fanno riflettere: madonna mia… ma diventeremo pure noi così schizzati e dissociati? Urlo davanti al banco come uno strillone all’angolo della strada: “Giornata di mobilitazione… lasciateci una vostra parola, un pensiero, un’idea. SENZA CENSURA”. Un ragazzaccio mi piglia in parola e mi risponde: “Statte zitta!”. Giusto. Senza censura. Ma la regola vale pure per ME, per cui gli rispondo: “BESTIA!”. La vivacità è una bella cosa; la scostumatezza estrema di certi ragazzini, invece, che s’avventano su tutto come le cavallette, come i Vandali, che paiono privi di luce d’intelletto, per i quali solo il linguaggio delle pedate direbbe qualcosa da loro comprensibile, è un segno sconfortante di degrado familiare e sociale.
Alcuni descrivono e auspicano “la scuola che vogliono”: senza compiti, solo ricreazione, CHIUSA. Altri invocano cadute e cancri per il prof. Tizio o Caio. Uno scrive, in napoletano scorretto: “Anna murì tutt ‘e prufessures!”. Beh: morire… moriremo, questo è certo! Lo scolaro non ha fornito determinazioni di tempo, per cui non dobbiamo manco toccare ferro! Ecco cosa fa l’asineria: pure le imprecazioni sono sbagliate e, quindi, inefficaci! Mi ricorderò di questa cosa quando dovrò spiegare il perché delle “eccezioni”, in latino, quando dovrò (se mai di nuovo potrò!) dire agli alunni che ci sono dei linguaggi, come quello giuridico o sacrale, conservativi al massimo, nei quali cambiare una parola significa mandare a gambe all’aria una norma, un augurio o un messaggio rivolto agli dèi, col rischio di subire pesanti conseguenze…
Si fermano ex professori e gente comune, prof. di ruolo e prof. mancati; precari e aspiranti precari, studenti e professionisti, ragazze troppo giovani e tuttavia mamme (studentesse mancate, uscite dal circuito dell’istruzione troppo presto) e gente indifferente e scocciata. C’è sufficiente informazione, in giro, mi pare: la Gelmini è nota e odiata anche da chi non ne conosce le devastazioni, così… A PELLE!
I cartelloni che riporto a casa sono pieni di pensieri gialli, rossi, viola, blu, celesti. Pensieri amari, urlati, pacati, indignati, tutti preziosi, quasi tutti non estemporanei, meditati e per lo più effusivi, come se poche battute non bastassero a nessuno per dire tutto, per ricollegare il dato contingente della crisi della scuola allo strutturale e sostanziale dato della decadenza istituzionale, che tutti sentono come un oltraggio personale: Vorrei una scuola in cui si diplomassero più figli di operai e meno figli di papà; La scuola non è un’impresa; la scuola è troppo preziosa per essere gestita da incompetenti; Vogliamo il mondo che sognavamo negli anni ’70; BASTA!; La cultura serve alla crescita di tutti; Nous avons le memes problemes en France; Forse non ci sono più parole per esprimere l’indignazione di fronte al comportamento delle istituzioni…; Sono addolorata per i miei colleghi precari. Firmato: una ex prof. in pensione; La precarietà uccide la vita di anime e menti prestigiose; Vorrei che la scuola mi permettesse di continuare a sognare; La cultura è il fondamento di ogni buon ordinamento della società; Revolution is the only solution; Ministri ignoranti a casa e ritorno ai congiuntivi; Non voglio più compilare un modulo di disokkupazione; Germina sei una prostituta; Io non li ho votati, questi terroristi; In base a quali meriti e/o esperienze pregressi è stata nominata Ministro della P.I.?; No alla scuola-azienda; Sono triste perché ho due figli piccoli che la scuola la devono ancora iniziare…; Viva la scuala publica; Voglio l’incarico…
C’è anche un precario, GRANDIOSO, che scrive: PATATERN’… LANCEME ‘E COMPONENTI!…
L’ultimo messaggio fa il giro dei colleghi che sopraggiungono nel pomeriggio… Noi, della generazione cresciuta con Jeeg Robot d’acciaio, ridiamo da pazzi. I ragazzi ci guardano e non capiscono, ma restano sospesi con un sorriso inerziale sulla faccia, invidiosi della nostra complicità, del nostro passato. Mi godo molto il loro rammarico, la loro “esclusione”: i nostri alunni credono sempre che noi “vecchietti” gli invidiamo il futuro! E’ bene che capiscano che non è detto che il futuro sia esaltante o per forza pieno di cose migliori, che ci sono “passati” memorabili, la cui atmosfera non tornerà, forse, e che i “vecchietti” sono fieri di aver respirato…
Gente mi stringe le mani; stringo le mani a gente; la tocco, cerco di comunicare a tutti, con le mie mani, la gratitudine che provo per la coralità raggiunta nella deplorazione dello stato di cose attuale; arrivano genitori di alunni, compagni del corso abilitante, colleghi vecchi e nuovi e anche un alunno specialissimo, diplomatosi tre anni fa, che si materializza sotto il gazebo, scanzonato e combattivo come sempre, e come sempre unico, dandomi un’indescrivibile gioia. Lo abbraccio alzandomi sulle punte, mi appoggio un attimo a lui, come a un totem capace di dissipare la sensazione di fallimento che mi attanaglia…
Il sole picchia e martella. Alle 16,30 è ancora fortissimo, tanto che il prof. Aragno, che ci intrattiene in piazza evocando un’Italia che il revisionismo osceno degli ultimi anni ha cercato di sporcare o far dimenticare, è costretto ad avanzare progressivamente e comicamente verso l’improvvisata e incantata platea, per scampare alla liquefazione, fino a che non si decide di orientare noi le sedie verso l’obelisco della Vergine, ai piedi del quale il prof. si trasferisce, all’ombra, per continuare, tra i rumori e qualche risata di sciocco scherno giovanile, accolta con pietà e condiscendenza, a profilare e dipanare la vita di chi ha fatto e garantito quello che, dopo averci narcotizzato con massicce dosi di qualunquismo e volgarità, ci stanno strappando senza neppure dover ricorrere alla violenza: uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, formazione del cittadino come individuo, prima che come consumatore o produttore di beni, dignità e pari opportunità per tutti, proscrizione del patriarcato, sotteso a leggi o a pratiche infami (delitto d’onore, case chiuse), partecipazione democratica alle decisioni riguardanti la collettività…
Emerge a tutto tondo, dalle nebbie della sconoscenza e dell’oblio selettivo e interessato, la figura di Lina Merlin, maestra, oratrice fantastica, antifascista, partigiana, paladina dei diritti delle donne, “madre costituente”, cui si deve l’inclusione delle cittadine tra i cittadini per i quali unicamente si chiedeva l’uguaglianza davanti alla legge… Storie fantastiche di vite oggi irripetibili; storie plausibili, tuttavia, di donne che hanno potuto cambiare, con la forza dell’argomentazione logica e del richiamo alla coscienza, abitudini inveterate, che hanno potuto scardinare pratiche vergognose e ipocritamente coperte, che hanno potuto, con la sola intelligenza, imporsi sulla scena politica… Storie di un’Italia violenta e maschilista, di libero stupro e libero femminicidio, che tuttavia si piegava, sia pure obtorto collo, alle istanze della decenza sollevate da chi denunciava, da chi puntava il dito “contro”. Storie di un’Italia che invocava la morte delle femministe “rompiballe”, ma che sapeva ancora provare vergogna del vizio, quando veniva reso pubblico, mentre oggi se ne mena vanto e se ne fa un trampolino di lancio per il parlamento o lo show televisivo, equiparati dall’attitudine sempre più marcata a vedere il mondo come un grande palco, su cui arrivare anche a costo di prostituirsi e su cui esibirsi fino a strappare l’applauso di un pubblico qualunque, anche degradato e incolto.
Il prof. Aragno sa guardare lontano, oltre la notte in cui tutte le vacche sono nere, oltre la notte della Repubblica, oltre la notte in cui i mostri approfittano del sonno della Ragione, oltre la nottata… La nottata passerà o la faremo passare, come dice De Gregori; l’irragionevolezza e l’abuso, il malaffare e l’inganno, l’intrigo e l’ignoranza prima o poi collasseranno, faranno passi falsi, imploderanno, si esauriranno e qualcuno tornerà a raccogliere i cocci, a perdonare, a ricucire, a rassettare la casa comune, a renderla di nuovo accogliente e di nuovo ospitale. Non vinceremo subito, ma vinceremo, dice il prof., concludendo. Ci risuona e vibra nell’intimo, la frase, confortante come la promessa divina della resurrezione. Qualcuno corre a scriverla, in celeste, sul cartellone bristol. Grazie al prof., siamo tutti predisposti al canto, alla gioia. Prima, facciamo un’incursione birichina nel cortile di una scuola media vicina e cerchiamo di stanare i professori di ruolo che hanno iniziato le attività stamattina, e che si infrattano, come se fossimo davvero dei terroristi che vogliano attentare alla loro incolumità… Assurdo!
Da Somma Vesuviana arrivano musicisti esperti, con tamburelli larghi, vasti, rotanti, e con la piccola Gaia, piena di riccioli, che danza e scappa qua e là, rincorrendo un pallone arancione. Inizia la musica sempre uguale e mai stancante della tammorra, il ritmo coinvolgente; impossibile stare fermi, non schioccare almeno le dita…
Continuo a volantinare e a controinformare, battendo le mani e i piedi in terra, di tanto in tanto. La mia mente viene occupata automaticamente da un’ immagine: quella del mosaico pompeiano che ritrae un attore comico nell’atto di sollevare un tamburello identico a quello che vedo in mano alla banda qui in piazza. Più di 2000 anni di continuità identitaria, di ritmo popolano, di passi di danza calibrati e lenti, sempre uguali, seducenti e sfrontati… Mariella, la nostra “gitana”, sussume, nel danzare, la grazia di 2000 anni di femminilità mediterranea e starla a guardare è un vero piacere, mentre Roberta ha un modo antico e misterioso di battere le mani, a braccia alzate, una mano ferma e l’altra che va a raggiungerla producendo il battito, come se l’Afrodite in Conchiglia del famoso dipinto pompeiano avesse suggerito a lei sola, in un sussurro, la giusta e secolare movenza… Giuseppe sta dinto ‘o sujo, come si dice, e si sfrena, filmando e zompando… La gente si raccoglie: mi si illividiscono le mani a gonfiare palloncini lunghi, di quelli che usano gli animatori, perché pure il gonfiatore fa resistenza dura, come noi, e perché i piccoli non solo sono esigenti, ma vanno pure ‘e pressa!
La gente pare riconoscere quei ritmi come propri, li apprezza, li fa suoi, li vive come peculiare e tipizzato genere di espressione, come sigillo del Sud. I precari fanno anche questo: sollevano uno specchio davanti agli occhi dei napoletani, uno specchio magico, nel quale si vedono le maschere antiche dell’Atellana sovrapposte alle facce dei cittadini d’oggi.
Si fa sera, sera dolce e calda. Qualcuno prende il microfono e ci soffia dentro. Il soffio arriva alle orecchie disturbante, offensivo: nega la validità della lotta che stiamo conducendo, dice che siamo in pochi, che non abbiamo il coraggio di “osare” di più. Condisce il tutto con parolacce ed espressioni volgari, che dovrebbero essere garanzia di “trasgressione”… una vecchia storia, un vecchio equivoco, che contribuisco a dissipare ogni volta che vedo qualche studente cascarci…
Mi dicono che a parlare è un musicista. Mi domando perché faccia un comizio anziché cantare e suonare. Mi attraversa la mente, in un lampo, l’attacco di una canzone di De Gregori: CARNE DI PAPPAGALLO, NON NE VOGLIAMO MANGIARE PIU’, SIGNOR PADRONE, SIGNOR PADRONE!…
Ecco… penso fra me, mentre l’altro continua a latrare nel microfono e a parlare di cose che non conosce, di cose che non sa, perché non c’era, lui, sotto il sole di Messina, perché non c’era, lui, accanto all’ambulanza che portava via Giacomo sfinito dal digiuno, perché non c’era, lui, nella notte lunga, sotto il gazebo, davanti al provveditorato, che se De Gregori fosse venuto in piazza del Gesù, se fosse venuto a trovarci lui, non avrebbe parlato, giudicato, sentenziato… Avrebbe semplicemente preso il microfono e, dopo qualche accordo, avrebbe cantato: CARNE DI PAPPAGALLO, NON NE VOGLIAMO MANGIARE PIU’, SIGNOR PADRONE, SIGNOR PADRONE! … Oppure avrebbe commosso e corroborato la platea, ripetendo: SEMPRE E PER SEMPRE, DALLA STESSA PARTE, MI TROVERAI!…
Un artista parla attraverso l’arte sua. Scioglie in colori e suoni il suo messaggio. Non arringa le folle e non dà suggerimenti che nessuno gli chiede.
Quanto poi alla natura dei suggerimenti che ci sono stati dati, all’invito, sostanzialmente, a fare qualcosa di illegale, eversivo o violento, credo di poter rispondere, a nome di tutti i miei amici, che noi siamo di quelli che, quando la storia si fa tanto dura da pretendere di essere scritta col sangue, preferiamo versare il nostro fino all’ultima goccia piuttosto che versare una sola goccia di quello dell’avversario.